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 Screenshot_2025-05-29_alle_04.27.13.pngAl cinquantottesimo secondo, dell’undicesimo minuto, della diciottesima ora, del ventottesimo giorno, del quinto mese, dell’Anno del Signore ventesimoquinto del Secondo Millennio dell’era cristiana, sull’ultima sedia esterna, della seconda fila, dei banchi della maggioranza del Consiglio Comunale, sotto la cupola dell’ex Gavini, nel quartiere della Gammarana, della città di Teramo, nella Regione chiamata Abruzzo, al centro dell’Italia, a Sud dell’Europa, a Nord dell’Equatore e, soprattutto, al cospetto di Gianguido Secondo, successore di sé stesso, il Nulla si è fatto uomo.

Disintegrando in un attimo centinaia d’anni di filosofie senza risposta, dal non essere di Parmenide al non definibile di Carnap, il Nulla a Teramo s’è fatto uomo.
E ha parlato.

Di sé stesso, ovviamente, ma ha parlato.

L’ha fatto assumendo le umane sembianze del consigliere comunale Michele Raiola, nell’attimo in cui l’intera Maggioranza gianguidica gli ha affidato l’onorevole compito di sublimare, in un’apoteosi dell’inconcludenza, i lavori del più inutile tra i Consigli Comunali ai quali io, in trentanove anni di cronache, ho avuto la ventura di assistere.
Neanche il più ispirato tra gli scrittori, avrebbe potuto immaginare un finale tanto perfetto per un Consiglio straordinario sul Commercio nel Centro Storico, che di straordinario ha avuto solo il fatto che non si è praticamente parlato del Commercio nel Centro Storico, perdendosi in una lunghissima, stucchevole, improduttiva discussione sui parcheggi, ma senza intuire una qualche possibile soluzione, né lasciare che prendesse il volo una qualche visione. 

Niente.

Sette ore di niente e poi il Nulla: Michele Raiola. 

Un Nulla che si declina in otto minuti di intervento nel corso dei quali, con la consueta simpatia e quel garbato eloquio che abbiamo imparato a riconoscergli, Raiola riesce a non dire niente.
No, non niente di politico, ma proprio niente in assoluto.
Otto minuti di balbettìo grossolano, di chiacchiericcio da barbiere (nulla togliendo ai maestri della tricologia) che sfiora la polemica da bar sport.
Otto minuti di concetti accatastati alla come viene viene, nel solo tentativo di offrire alla platea (che ovviamente non lo stava ascoltando) l’ennesima dimostrazione di quanto il gioco democratico delle elezioni sia, ormai, arrivato nel nostro Paese a scrivere la pagina più dolorosa di tutta la storia repubblicana.
In altre epoche, in altri contesti, in quella che abbiamo frettolosamente consegnato alla memoria come Prima Repubblica, uno Michele Raiola qualsiasi non sarebbe mai riuscito ad arrivare in Consiglio Comunale.
Non che quelli di allora fossero tutti geni, per carità, ma c’erano i partiti, che facevano una sorta di preselezione, avviando alle candidature solo chi avesse almeno maturato quel minimo di conoscenza della politica che gli avrebbe consentito poi, nella rarissima ipotesi di dover prendere la parola, di avere qualcosa da dire e di sapere come dirlo.
Ma era difficile, visto che c’erano i gruppi veri guidati da capigruppo ancor più veri, che mai o quasi mai lasciavano libertà di parola ad altri. 

All’epoca, quel silenzio lo consideravo un’ingiusta mortificazione della personalità degli eletti, oggi invece, ogni volta che il presidente del Consiglio Comunale annuncia l’intervento di Raiola, rimpiango proprio quei silenzi. 

Anche se, come mi annunciavano i quattro messaggi ricevuti ieri da altrettanti consiglieri di Maggioranza, l’affidare a Michele Raiola il compito di parlare a nome di tutta la gianguideria consiliare, è stato anche un modo per offrirmi la possibilità di scrivere queste righe.
Tra i banchi del governo cittadino, infatti, non sono pochi quelli che amano quanto me le raiolate, considerandole uno tra i pochissimi spunti di divertimento di un’esperienza politica altrimenti tristissima.

Nel suo intervento, in quegli otto indimenticabili minuti di ossigeno ingiustamente trasfomato in voce, il raiolante Nulla ci offre l’ennesima dimostrazione della sua inadeguatezza politica, rinnovando per l’ennesima volta quell’approccio un po’ guascone che sarebbe consentito solo, e forse neanche tanto, a chi avesse vissuto almeno l’ultimo ventennio di vita politica cittadina.
Raiola, col fare di chi la sa lunga pur sapendola cortissima, continua a fingere di non capire, anzi no, scusate, non finge: continua a non capire che il torcicollismo del rinfacciare alla Minoranza colpe di quando era Maggioranza, dopo sette anni non funziona più.
Possibile che Raiola non capisca che, dopo sette anni quasi otto di gianguideria, non ha alcun senso attribuire al Centrodestra colpe dell’era Brucchi?
Adesso che vi lascio alla visione del video, di quegli otto minuti, ascoltatelo mentre affastella qualche confuso concetto, per cercare di attaccare la Minoranza sulle mattonelle del Corso.
Secondo il Raiolapensiero, infatti, la colpa è per sempre dell’autore, quindi se le mattonelle del Corso sono malmesse, la colpa non è dei sette anni di mancata manutenzione gianguidica o dei sette anni di passaggi dei furgoni che l’assessore Filipponi già nel primo mandato aveva promesso di eliminare.
No, la colpa è di chi ha fatto quel Corso.
Per sempre.
Mi aspetto che, in uno dei prossimi consigli, Michele Raiola, in un’altra delle epifanie del Nulla, voglia finalmente attribuire la colpa dell’attuale condizione del Teatro Romano al vero e unico responsabile: Caio Giulio Cesare Ottaviano Augusto, e chieda che sia lui, coi suoi sesterzi, a pagarne il restauro. 

Ascoltatelo, in questi otto minuti.

Guardatelo, mentre si atteggia col fare del politico provato, mentre ammicca, recita, sproloquia, si compiace di sé stesso, si riveste di un’autorità che non ha e di un’autorevolezza che nessuno gli riconosce, continuando ad evocare periodi nei quali immagino che passasse le sue giornate giocando con la play, e dei quali però parla, ammucchiando poche idee ma confuse (è una citazione, Michè).

Guardatelo, mentre lo ascoltate.

Leggetene il linguaggio del corpo, la spacconeria spicciola, la postura arrogante, l’impostazione bullesca, tutto il corollario della gestualità buona per tiktok o per i reel di Instagram.

E fatelo ascoltare ai vostri parenti.

Ai vostri figli, magari.

Scusatevi, prima, perché li costringerete a sprecare otto minuti delle loro vite, ma poi fategli ascoltare questo intervento, perché il Nulla della politica pretende lo stesso trattamento che, qualche anno fa, si riservava ad un virus pericolosissimo: se lo conosci… lo eviti.

E adesso, eccovi il video, io vi aspetto alla fine.





Sì lo so, la cosa più interessante del video erano i calzini spugnosi infilati nei mocassini dello spettatore alle spalle di Raiola, ma spero che abbiate avuto la forza, il coraggio e la pazienza di ascoltarlo tutto, per farvi un’idea chiara e completa di quale sia la portata del problema.

L’unico passaggio che condivido, è quello in cui il Nostro sottolinea: «…io casco dal pero», e mi auguro che si voglia individuare al più presto la pianta, per evitare che produca altri frutti.

Quando la Raiolata finisce, siamo al cinquantacinquesimo secondo, del diciannovesimo minuto, della diciottesima ora, del ventottesimo giorno, del quinto mese, dell’Anno del Signore ventesimoquinto del Secondo Millennio dell’era cristiana, sull’ultima sedia esterna, della seconda fila, dei banchi della maggioranza del Consiglio Comunale, sotto la cupola dell’ex Gavini, nel quartiere della Gammarana, della città di Teramo, nella Regione chiamata Abruzzo, al centro dell’Italia, a Sud dell’Europa, a Nord dell’Equatore e, soprattutto, al cospetto di Gianguido Secondo, successore di sé stesso.
ADAMO