
Arrivare in Giordania significa fare un gesto interiore prima ancora che geografico: ripensare il presepe. Deporre, per un istante, le capanne di legno, il muschio umido, le lucine discrete delle nostre tradizioni domestiche.
Qui, la Natività non profuma di abete.
Qui è polvere, vento, luce verticale.
È fatica.
È un cielo grande che non concede riparo, una terra che non addolcisce i contorni.
Questi sono i luoghi di Gesù, o almeno di ciò che ne ha segnato l’inizio pubblico: le rive scabre del Fiume Giordano, dove fu battezzato, e che non ha nulla di idilliaco e tutto di essenziale; l’orizzonte severo del Monte Nebo, da cui lo sguardo impara la misura della promessa e della distanza, perché è qui che il Dio degli eserciti e delle vendette, quello della Bibbia, mostrò a Mosé la Terra Promessa.
E poi il Mar Morto, ferita geologica e simbolica, dove l’acqua non dà vita e proprio per questo costringe a pensarla come bene sacro.
Il presepe, qui, non consola: interroga.
Non accoglie: spoglia.
Ci racconta che la storia che veneriamo nasce in una terra aspra, senza scenografie gentili. Che la povertà non è ornamento, ma condizione reale. E che la speranza, se vuole durare, deve imparare a camminare su pietra viva.
Eppure, in uno scenario regionale lacerato da guerre infinite, la Giordania ha saputo ritagliarsi una postura diversa: misurata, pacifica, operosa.
Non per ingenuità, ma per intelligenza storica.
È diventata crocevia di commerci, luogo di transito e di equilibrio; ha fatto delle risorse—talvolta usate con una consapevolezza ancora incompleta—un motore di sviluppo: i fanghi del Mar Morto, i fosfati che alimentano l’economia, l’industria che cresce ai margini del deserto. Non senza contraddizioni, ma con una rara continuità di visione.
Soprattutto, questa è una terra che custodisce il più antico dei culti umani: il rispetto dell’acqua. Qui l’acqua manca, anche se ci si muove su un altipiano.
Proprio per questo viene misurata, attesa, condivisa. È una pedagogia antica: imparare a vivere non contro il limite, ma con il limite. In Giordania l’acqua non è mai scontata: è relazione, responsabilità, memoria. È politica prima che tecnica, etica prima che infrastruttura. Quando atterriamo, dopo un comodo volo di tre ore su un piccolo Embraer (ed era la mia prima volta su un aereo fatto in Brasile) però piove.
E piove tanto.
Tantissimo.
Così tanto che riemerge la mia percezione italocentrica, anzi: abruzzocentrica, quella per la quale la pioggia, specie quando è troppa, è solo una grande rottura di scatole.
Sarà che sono abituato al pianto annuale dei nostri politici, che lamentano i danni della siccità più per lucrare aiuti che per vera necessità, visto che poi l’acqua alla fine c’è anche per lavare la macchina.
A restituirmi la dimensione della realtà, arriva Omar, la guida scelta da Giovanna Fumo per questo viaggio, che ci accoglie ringraziandoci per aver portato la manna.
L’acqua.
Forse è questo il dono più grande che questa terra consegna a chi arriva: la possibilità di disimparare le comodità del racconto e recuperare la verità del luogo.
Ripensare il presepe, sentire il “sapore” dell’acqua, che qui i popoli del deserto da secoli onorano, mi dice Omar, mangiando con le mani, perché non ci sia nulla da lavare.
Eliminare il superfluo, restituire al sacro la sua nudità, alla pace la sua fatica, alla prosperità la sua misura. E capire che, a volte, la civiltà comincia proprio dove l’acqua è poca e la luce è troppa.
La Giordania è uno scossone dell’anima, che ti costringe a rivedere i paradigmi.
Nel piccolo e un po’ malconcio museo della Cittadella di Amman, c’è una teca con alcune statuette.
Semplici.
Quasi infantili.
Sono in gesso e siccome hanno più di ottomila anni, sono forse le più antiche statue modellate dall’uomo.
«La Storia comincia qui…» sottolinea Omar, nel suo italiano perfetto.
Sarà, ma a me, in questo momento, sembrano un presepe.
Forse il più vero e bello che abbia mai visto.
ADAMO

