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MuertoNel 1956 tanti erano a Teramo i temi urbanistici sul tappeto: la costruzione del nuovo palazzo di Giustizia, quella della stazione delle autolinee in piazza Garibaldi, quella della caserma dei vigili del fuoco, quella del nuovo ponte su Vezzola, che, come scrisse a metà novembreIl Tempo, avrebbe garantito il necessario spazio vitale con l'espansione edilizia al di fuori del nucleo urbano, nel quale le aree edificabili andavano rapidamente esaurendosi. Lo stesso giornale qualche giorno dopo, sabato 17 novembre 1956, avviò un'inchiesta sulla situazione edilizia del capoluogo, in un articolo intitolato: "Hanno rovinato una città". Teramo era un città morta, si leggeva, il suo avvenire urbanistico era già compromesso. Nel dopoguerra le nuove costruzioni erano sorte per la maggior parte nei punti vitali del tessuto urbano o nell'immediata periferia, seguendo criteri assai discutibili e comunque contrari ai principi dell'urbanistica e forse anche contro le disposizioni di legge. Teramo era attualmente una città sopraffatta dall'incontrollato progresso tecnico, paralizzata dal caos e dal disordine delle nuove costruzioni. Era stato permesso che si deturpasse il volto della città. Naturalmente l'articolo de Il Tempo fece molto discutere. Teramo era davvero una città morta? Nei mesi successivi sul tema vennero scritti fiumi d'inchiostro sulla stampa e incrociarono il fioretto i più noti polemisti e politiciSempre Il Tempomartedì 20 novembre 1956 pubblicava un altro articolo destinato a far molto discutere, intitolato: "Perché viene ancora ignorata la zona del Teatro Antico?". Si denunciava che, interrotti i lavori di scavo, il luogo era rimasto in abbandono e nulla era stato fatto perché le costruzioni adiacenti  riacquistassero l'aspetto di civili abitazioni. Quanto al "rudere glorioso" non si faceva nulla per valorizzarlo. Soddisfazione veniva espressa, invece, qualche giorno dopo, per il programma di lavori per l'ammodernamento dell'Ospedale.Muerta“Il Tempo” ricominciò a parlare di Teramo “città morta” nel 1958, con un articolo intitolato “Teramo è davvero una città morta?  e dando avvio ad una serie di interviste sull’argomento a diversi cittadini. La seconda puntata dell’inchiesta venne pubblicata il 14 novembre. Le risposte e i pareri erano diversi. La terza puntata, con altre interviste, venne pubblicata il 10 novembre, la quarta il 22 novembre,la successiva il 27 novembre. C’era chi sosteneva che Teramo non poteva essere che una modesta cittadina per la sua posizione geografica, qualcun altro diceva che la qualifica di “città morta” era una triste e vivente realtà. Un’altra puntata dell’inchiesta venne pubblicata da “Il Tempo” il 2 dicembre 1958 e tra gli intervistati figurava il fotografo Paolo Graziani, padre di Ivan. Secondo lui Teramo “Città morta” era un luogo comune, Teramo più che morte era sonnacchiosa e la colpa era dei teramani. Nella puntata del 4 dicembre a rispondere erano delle donne teramane, secondo cui Teramo era una “città sepolta”, per il buio delle strade, per lo sconcio dei camion della nettezza urbana, per l‘esistenza di un solo cinema e per la difficoltà di trovare un impiego.
“Il Messaggerodecise di scendere in campo contro l’inchiesta del giornale concorrente e domenica 5 aprile 1959pubblicò la risposta del sindaco Carino Gambacorta a quella che veniva definita “una campagna denigratoria. “La città è più viva di quanto si pensi assicurava il sindaco.. La polemica con Il Tempo, il “confratello del mattino”, che aveva avviato una serie di articoli accusando Teramo di essere “una città morta”, induceva l’articolista a sposare in pieno le difese del primo cittadino contro “le insinuazioni” ai danni della “fiorente città teramana”, negando che non restasse che “cantarle il de profundis”. La campagna di stampa, si leggeva nell’articolo, rivelava una volontà negatrice di ogni progresso di un intruso (perché non poteva essere certamente un teramano a scrivere certe cose della propria città) che sfogava contro la vita, l’ambiente, le cose, gli abitanti “una specie di odio atavico”. Il giornale rivendicava che da 80 anni seguiva la vita “fervida anche se silenziosa” di Teramo, tipica di chi amava lavorare e progredire in pace. Preannunciava una contro-inchiesta tesa a dimostrare, “in termini seri con dati e cifre alla mano” che Teramo non era una città morta. Sarebbero state sentite persone serie e responsabili che, gestendo le sorti di enti ed istituzioni, avrebbero potuto fornire risposte ufficiali a numerosi interrogativi, contestando quanto affermato da gente rispettabile, ma che non poteva assolutamente rappresentare l’intera città.
Il primo degli intervistati era lo stesso sindaco Gambacorta, il quale dichiarava: Per ragioni di correttezza “non posso giudicare in un giornale l’iniziativa di un altro giornale, il che si inserirebbe in una polemica estranea ai miei doveri. […] Teramo è quanto mai viva, com’è dimostrato dal suo rapido e continuo sviluppo edilizio. Notevoli gli investimenti pubblici, non altrettanto notevoli quelli privati, fatta eccezione di pochissimi casi, assai lodevoli in verità, ma troppo pochi per un comune che ha superato di molto i 40.000 abitanti. Chi ha mezzi e buon ingegno o li spende ed impiega altrove, o da ‘benpensante’ se li tiene per sé, per nulla curandosi del pubblico interesse e del bene comune. Tuttavia, malgrado la natura della sua economia e della sua posizione geografica, Teramo va registrando indici sempre più elevati di progresso economico, sociale e culturale, per l’alacrità dei suoi lavoratori e per il contributo di pensiero e di acume di coloro che per essa operano con lo sguardo proteso verso un miglior avvenire di città. 
Nella stessa pagina de “Il Messaggero” di quella domenica 5 aprile1959 si occupava della polemica anche Giuseppe Lisciani, giovanissimo collaboratore del giornale, non ancora diplomato e studente dell’Istituto Magistrale, che si come un sessantenne, con baffi e barba incolta, cappello da pecoraio, che, capitato sotto i portici del Caffè Grand’Italia, aveva letto (sillabando, perché era arrivato solo alla seconda elementare) un titolo di cronaca di un quotidiano affisso al muro, che si poneva un interrogativo: “Teramo città morta?”. “Il momento”, scriveva Lisciani, “era solenne. Teramo stava dimenandosi nell’agonia. O già aveva reso l’anima al Creatore. […] pensò di rendere un ultimo omaggio alla povera Teramo. Era un uomo d’azione, lui. E non perdette tempo. Iniziò subito la questua per i funerali della città. Lo derisero tutti. Ma egli era in buona fede.
Il tono sarcastico dello scritto mostrava come l’autore, aderendo perfettamente alla linea del suo giornale, ironizzasse sulla campagna di stampa de Il Tempo, “il confratello del mattino”, sulla questione dell'attribuzione a Teramo della qualifica di “città morta”. Il tono sarcastico proseguiva anche nella parte finale dell’articolo di Lisciani. Il povero Simplicio aveva imparato la lezione e adesso, ogni volta che scorgeva un annuncio di morte o un corteo funebre, si dileguava. Ma, avendo sentito dire da un intellettuale che i galantuomini stavano soltanto al cimitero, aveva pensato di fare il galantuomo e di recarsi al cimitero, dove aveva passato tutta la giornata. Sopraggiunta l’oscurità, si era sentito improvvisamente spinto da una forza che non aveva saputo spiegarsi sulla strada, lontano dal cimitero. Qualcuno gli aveva poi spiegato che quella forza si chiamava paura e che era stato trasportato dal soffio d’oltretomba. Da allora, Simplicio era stato più prudente. Avendo letto un altro titolo di cronaca sulla linea ferroviaria Teramo-Giulianova, non aveva assunto alcuna iniziativa, aveva pensato che il problema prima o poi si potesse risolvere ed era stato contento. Tenendo fede al proprio impegno, Il Messaggero tornò a contestare la tesi di “Teramo città morta” mercoledì 8 aprile 1959, con un articolo intitolato: “Una campagna denigratoria che nuoce alla città” e che nel sommario riportava: “Affermare che Teramo è una città morta è un sacrilegio è l’opinione dei veri teramani. Una energica protesta del Presidente del C.d.C.”. Nell’articolo venivano riportate le dichiarazioni di Alberto Tommolini, presidente della Camera di Commercio, Industria e Agricoltura, di cui veniva pubblicata una foto a corredo dello scritto. Poteva considerarsi morta, si chiedeva Tommolini, una città in cui le iniziative industriali, anche se non tutte coronate da successo, si susseguivano e si avvicendavano? Era assurdo soltanto pensarlo! Si era trovato più volte a parlare con i presidenti delle Camere di Commercio di altre province e tutti avevano ammesso “di stare peggio di noi”. “Sinceramente quindi non capisco” dichiarava Tommolini “perché sui giornali dobbiamo proprio gettarci giù. Che la vita a Teramo progredisce, che c’è movimento, che non esiste remora allo sviluppo io l’avverto in ogni manifestazione, anche la più insignificante. Vengono chieste sempre nuove licenze per esercizi pubblici”. Le cancellazioni all’anagrafe della Camera di Commercio, precisava, erano inferiori ogni mese alle nuove iscrizioni, si registrava un risveglio dell’artigianato grazie ai provvedimenti governativi e presto anche il problema turistico avrebbe trovato una soluzione con la costruzione di un albergo ai Prati di Tivo, località la cui valorizzazione avrebbe fatto di Teramo un anello della rete turistica nazionale. Nei numero successivi “Il Messaggero” pubblicò una serie articoli per dimostrare quanto la città fosse viva: “E’ innegabile che la città è in forte ripresa economica” (11 aprile 1959), “La città procede speditamente sulla via del progresso “ (14 aprile 1959), “Nella città lo spirito di iniziativa non manca” (19 aprile 1959), “Gettate le basi per un’industria” (25 aprile 1959). Ma “Il Tempo” reagì e il 25 aprile pubblicò un articolo con il titolo “Teramo è forse una città morte? ha dato il via ad una nuova politica”. Nel sommario si leggeva: “La nostra inchiesta ha suscitato la reazione delle autorità. La città deve essere salvata. Una politica ottimista ad ogni costo non ha mai giovato a nessuno. La realtà attuale va affrontata a viso aperto e senza falsi timori”. Ma il 30 aprile “Il Messaggero” rispondeva attribuendo al Ministro Pastore, che aveva visitato città, la frase: “Teramo mi ha offerto lo spettacolo di una città piena di vita”.
ELSO SIMONE SERPENTINI