«Questo racconto è lo studio sincero e spassionato del come probabilmente devono nascere e svilupparsi nelle più umili condizioni, le prime inquietudini pel benessere.»
GIOVANNI VERGA
Sono stato ad Aci Trezza più di una volta tra il 2004 e il 2006: è un piccolo paesino sulla costa catanese: c'è un pullman che ci arriva comodamente da Catania.
Ricordo che non era una località molto turistica, da un punto di vista della ricezione. Una di quelle volte mangiai in un desolato ristorante in pieno centro degli spaghetti conditi con un curioso ragù rosso ai ricci di mare: la pasta era scotta e il ragù non era granché. Il riccio di mare so che va consumato quasi crudo, saltato giusto un attimo in padella con la pasta a fine cottura.
Non so quanti sanno che la granita è nata ad Aci Trezza; la granita siciliana però, che non è mica la banale grattachecca romana.
I pastori che vivevano sulle pendici dell'Etna, d'inverno o al lento sopraggiungere della primavera, raccoglievano la neve in una specie di tazza di metallo munita di coperchio; la comprimevano lì dentro la neve è ne usciva fuori un cilindro di ghiaccio che aveva una consistenza che sta tra un sorbetto e una crema gelato: chi poteva la condiva con del caffè o dello sciroppo alla frutta, il mandarino verde è quello che più preferisco.
Ma non trovai ad Aci Trezza chi vendeva la granita, perciò a ora di pranzo ripiegai in quel ristorante: tipica è quella alle mandorle o al pistacchio di Bronte, con cui i catanesi usano farcire abbondantemente dei grossi maritozzi, come si farebbe da noi (nel teramano, N.d.R.) con della cioccolata, mettiamo la Nutella: per ricchezza è sostanzialmente un piatto unico, infatti i catanesi sono soliti consumarlo in pausa pranzo questo enorme “maritozzo gelato”, o anche alla sera come cena veloce e assai gustosa, se piacessero i dolci.
Questa specie di tazza per fare la granita siciliana la vidi in una sorta di museo arrangiato dentro una umile casetta di Aci Trezza, conservata insieme ad altre povere cose: quella casetta sbilenca di poche stanze si crede fosse stata proprio quella dei Malavoglia.
Ma c’è un indizio importante a conferma di questo fatto: quasi di fronte a questa povera casa c'è un palazzotto, se non ricordo male di tre piani – lo ricordo addirittura di colore verde, ma la memoria, si sa, inganna ben più solide certezze –, che era la residenza estiva di Giovanni Verga, che da lì si affacciava spiando il povero mondo antico, mai moderno, dei pescatori trezzoni.
Le miei venute ad Aci Trezza non erano semplici gite turistiche ma omaggi a Giovanni Verga, perché è lui che più di tutti ha influenzato il mio lavoro in prosa, i miei romanzi, perché a me – come a lui – interessa la gente, come muove e vive (è mia abitudine frequentare i bar di paese per questo, fermarmi qualche ora con un birra e ascoltare questi luoghi dove non conosco nessuno e nessuno mi conosce, e raramente chiedono: è bello, e consiglio di farlo soprattutto a quei poeti da cameretta ermetica: potrebbe essere molto più utile che starsene lì a compilare insulse antologie con il pensiero fisso, prima di tutto, di come fare a ficcarci tutti gli amici per non scontentare nessuno arrivando così a sprecare più di mille pagine, e i relativi alberi necessari a fabbricarle quelle mille pagine): è l'autore italiano che più ho amato, più di Manzoni, che loro due sono le mie uniche eredità scolastiche che ancora conservo.
Nell'opera di Giovanni Verga c'è tutto il Vero della vita; vita che è una esperienza irripetibile e, per gran parte dell'umanità, durissima: questo ci testimoniano tuttora i suoi testi.
L'opera di Verga si dimostra da sé di grande valore letterario, perciò utile – come si accorse Luchino Visconti nel 1947 filmando La terra trema (1948) interamente ad Aci Trezza, principalmente in esterno e con attori non professionisti, i trezzoni appunto –; fatto che rende superfluo qualsiasi commento critico, perché i testi del grande scrittore di Vizzini ci raccontano di un uomo che vediamo ancora oggi preso nella quotidiana lotta per la propria affermazione personale, una ambizione che arriva più spesso al tozzo di pane per tirare a campare che al successo, quello che i più sanno misurare solo in ricchezza materiale, e dire nella grammatica del Capitale.
Il meridionalismo in letteratura comincia con Giovanni Verga, ma è un meridione ideale, globale, un Sud che trova cominciamento nell'Abruzzo di Fontamara, gira le Afriche, tocca le coste cubane del vecchio Santiago a Cojimar e arriva fraternamente in Sudamerica.
La letteratura è la forma d'arte più impegnativa che ci sia perché richiede, per esistere e manifestarsi, l'intervento diretto di chi ne fruisce attraverso l'azione della lettura, che è uno strumento della conoscenza che bisogna prima imparare, che in più è sempre esclusiva, personale, perché la letteratura non si accontenta della passività dello spettatore, mentre già basta l'inazione di chi guarda o ascolta per l'assimilazione primaria delle altre forme dell'arte: nasciamo già fatti per prendere, vedere e sentire, ma non per leggere.
La letteratura, cara Susanna Tamaro, richiede un maggiore impegno rispetto a tutto il resto; e forse anche più riguardo.
MASSIMO RIDOLFI