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marchionneOvviamente, ci dispiace. Non perché sia Sergio Marchionne, ma perché è un uomo che sta soffrendo. Non cadremo, però, nella tentazione fin troppo facile in questa Italia mitovora perché povera di grandi figure, di innalzarne un monumento, né a quella di esaltarne l’abruzzesità. Non ci uniamo al coro di quelli che già celebrano il "mito",

Perché, secondo noi, Marchionne non è un grande italiano, né un grande abruzzese. E’ un grande, un grandissimo capitano d’industria, di quelli che creano imperi e salvano aziende, ma sull’italianità e l’abruzzesità, consentiteci un dubbio. Anzi: due.
Il primo: è considerabile un “grande italiano”, un uomo che ha preso la più grande azienda del nostro Paese, che viveva un momento di profondissima crisi, e ne ha fatto una delle più grandi al mondo, ma togliendola all’Italia? La Fiat, oggi, per quanto ci faccia piacere continuare ad usare l’acronimo della Fabbrica Italiana Automobili Torino, non è più italiana, ma ha sede legale ad Amsterdam e sede fiscale a Londra. Fiscale, significa che le tasse le paga in Inghilterra. Certo, in Italia garantisce lo stipendio ad una parte dei suoi 234mila dipendenti sparsi in tutto il mondo, ma le tasse sui 3,5miliardi di euro dell’utile netto dichiarato nel 2017 le paga al governo di Sua Maestà. E sarebbe interessante, a questo, punto ricostruire quanti aiuti di stato abbia concesso la Corona alla Fiat, negli ultimi quarant’anni, perché quelli che al contrario ha concesso l’Italia sono noti. Dal 1977 a oggi, la Fiat ha ricevuto l’equivalente di 7,6 miliardi di euro dallo Stato, e ne ha investiti 6,2 miliardi. A dirlo è la Cgia di Mestre, ed è una somma che non tiene conto degli ammortizzatori sociali utilizzati dall’azienda, che quando è diventata un colosso mondiale con utili miliardari, ha deciso di spostarsi in Olanda e Inghilterra. Grazie a Marchionne.


Il secondo: è considerabile un “grande abruzzese” chi ha ridefinito, in peggio, i diritti dei lavoratori? Questa è una regione costruita sulla “fatij”, sul lavoro, sul sacrificio, ma anche sulla solidarietà antica di chi, pur avendo pochissimo, riusciva a condividerlo. Marchionne è un abruzzese, che vive e paga le tasse in Sviizzera, ma che ha fatto della “sua” Fiat un esempio doloroso di rapporto coi lavoratori. Come non ricordare la possibilità di punire gli scioperanti, o la lettera inviata ai dipendenti della Sevel in malattia, che recitava: «pur non contestando la validità di tali certificazioni, né la piena legittimità, alla luce delle vigenti disposizioni di legge, di tali assenze, riteniamo tuttavia utile segnalarle come questa situazione non può non avere rilevanti riflessi sulla continuità della sua prestazione lavorativa. Dobbiamo altresì aggiungere – si legge ancora – che, perdurando una discontinuità nella prestazione lavorativa quale quella evidenziata, l’azienda si riserva ulteriori e più approfondite valutazioni e decisioni in merito alla prosecuzione del suo rapporto di lavoro con la nostra società». Come dire, se ti ammali troppo, potresti essere licenziato. E nonostante l’utile miliardario, la Fiat oggi è un’azienda che ha ancora moltissimi dipendenti coi contratti di solidarietà e migliaia di esuberi potenziali. In tutto questo, il senso profondo dell’essere abruzzesi, non ci sembra di coglierlo.


Ci dispiace per Marchionne. Come ci dispiace per ogni persona che soffre e si avvicina all’atto finale della vita, ma non ci uniamo alla folla che sta alzando i monumenti. Anche se, vedrete, non mancherà chi a commento di queste righe, le criticherà ricordando che grazie alla Fiat la Juve ha comprato Ronaldo.

Per un “mito” che muore, c’è sempre un “mito” di riserva…