di Elso Simone Serpentini
La prima sensazione, rientrando al vecchio Comunale, è stata olfattiva. Mi è arrivato alle narici l’odore dell’erba appena tagliata, che quella sintetica non avrà mai. Poi ho capito che quel profumo aveva un’altra particolarità, era quello della storia: tra sette anni, nel 2029, quel vecchio amico compirà cento anni.
La seconda sensazione è stata visiva. Entrato dalla stessa porta da dove entrai nel 1954, quando avevo dodici anni, per vedere quella che fu la prima partita vista dal campo, non da una curva della salita che portava alla Specola, la porta del prato - che si chiamava prato, non distinti, perché di distinto quei quattro gradoni di cemento sui quali si vedeva la partita stando in piedi non aveva nulla… - ciò che ho visto mi ha fatto trasalire.
La terza sensazione è stata uditiva, ma solo immaginata dalla mia mente, perché solo la mia immaginazione e la mia memoria mi facevano sentire il boato della curva alla mia sinistra, la curva est, e quello della tribuna a me davanti, ora deserta e un tempo, per tante domeniche, un mare spumeggiante e tumultuante di passione.
Per completare l’insieme sinestetico del mio rientro in quel campo, mi sono chinato e ho toccato le zolle e i ciuffi d’erba, irregolari le une e gli altri, per sentire sotto i miei polpastrelli il soffice fluire dei fili d’erba.
La sensazione gustativa, la quinta, me la sono sentita in bocca, che si è asciugata per l’emozione e la lingua si è seccata, diventando muta e rendendomi incapace di parlare o in difficoltà a farlo quando ho risposto ad alcune domande di un’intervistatrice.
Queste le mie cinque sensazioni. Dentro avvertico una grande amarezza, anzi, un’angoscia, che vi venivano dettate dalla situazione del momento, già vissuta nel 2008, quando il calcio teramano risorse dalle sue ceneri come la Fenice, ed eravamo in mille, come quelli che seguirono il folle sogno di Garibaldi.
Ora non arrivavamo nemmeno ai trecento giovani e forti, e tutti morti, che seguirono Pisacane a Sapri. Eravamo appena un centinaio. La tifoseria ha deciso di non andare a vedere il neonato, non riconoscendosene né padre né madre – ché dal ruolo e dalla passione di questi due ruoli genitoriali questa nuova società destinata a portare avanti il nostro calcio è nata.
Si è preferito prima di riconoscere la propria paternità e la propria maternità, di sapere che fine farà l’altro figlio, di qualche anno più vecchio, portato alla rovina in appena tre anni incresciosi da gente che non pagherà mai abbastanza le proprie colpe e che con un nuovo, ennesimo ricorso, e perfino solo annunciato, ritarda colpevolmente la nascita di un nuovo amore.
Il calcio teramano, retrocesso per colpe altrui, è costretto a ripartire di nuovo da capo e lo ha fatto nell’indifferenza dei molti e nell’emozionata presenza al campo dell’Acquaviva nel primo pomeriggio e poi sul terreno dello storico vecchio Comunale poco più tardi, in solitudine.
Ma io c’ero. Dovevo esserci. E ho sognato un sogno che dicono impossibile, che quel terreno torni ad essere calcato da calciatori con la maglia biancorossa. La tifoseria divisa fa male, ma non dispero di ritrovarla unità, perché di unità c’è bisogno.
Riconosciamo il neonato, ha un altro nome, ma, quando crescerà, gli daremo il nostro nome, che adesso viene portato da un fantasma, un nome che chi ne detiene e regge le sorti ha sporcato tanto da renderlo elemento di vergogna. Le società di calcio nascono e muoiono, poi rinascono, e la continuità sta nel cuore e nella passione dei tifosi e quelli teramani ne hanno da vendere.