Era un fascista vero, Umberto Adamoli. Dopo la Grande Guerra, nella quale s’era coperto di gloria, tornando a casa con una medaglia d’argento, aveva scelto il fascismo, perché “…nello spirito di Roma e nella luce di Vittorio Veneto, aveva osato coraggiosamente di elevare la sua sdegnosa protesta contro coloro che, in un perfido egoismo, mettevano l'Italia in un ingiusto stato di umiliante inferiorità”.
Aveva indossato la camicia nera “… perché il fascismo era sorto e insorto, generosamente, contro la livida marea, che saliva a travolgere, nella sua abiezione, i prodi tornati dagli insanguinati campi di battaglia, carichi di cicatrici, di mutilazioni, di gloria”.
Era talmente convinto del ruolo storico del fascismo, da impiegarsi al punto di essere nominato Podestà di Teramo.
Eppure, è per celebrare lui, che l’ambasciatore di Israele verra a Teramo il 30 gennaio, in una delle primissime uscite pubbliche dopo la fine delle ostilità a Gaza.
Verrà a Teramo, in una città che per l’occasione sarà letteralmente blindata con misure di sicurezza altissime, per conferire ufficialmente ad Umberto Adamoli il titolo di “Giusto tra le nazioni”.
Per conoscerlo meglio, abbiamo chiesto al professor Elso Simone Serpentini di raccontarlo in 5 puntate, che ci accompagneranno da oggi alla vigilia della manifestazione
PRIMA PUNTATA
La mattina di sabato 25 settembre 1943, verso le cinque, un battaglione autocarrato tedesco, composto da 31 mezzi e comandata da “un duro capitano prussiano”, arrivò a Teramo, provenendo dalla Specola di Collurania, in trasferimento verso il nord da Francavilla al mare. I tedeschi occuparono rapidamente i punti strategici della città. Apparivano incerti sul da farsi, indugiavano, poi convocarono le maggiori autorità, cercarono informazioni. Occuparono la caserma Costantini, che era stata evacuata, e istallarono provvisoriamente il loro comando nella caserma dei carabinieri in piazza del Carmine. Da qui telefonarono a casa del maggiore dei carabinieri Bologna, l’ufficiale effettivo di grado più elevato di stanza in quel momento a Teramo, e lo convocarono subito, chiedendogli conto, una volta in loro presenza, di quanto era accaduto in quella caserma e del perché fosse stata abbandonata. Un drappello tedesco fortemente armato, comandato da un tenente, prelevò personalmente nel suo ufficio il podestà Umberto Adamoli, lo caricò sopra un autocarro e, tra la curiosità e i commenti del pubblico, lo portò nella caserma dei carabinieri dove si trovava il maggiore Bologna. Entrambi, Adamoli e Bologna vennero trattati come ostaggi. Un gruppo di giovani armati, ben consapevoli di questo ruolo di ostaggi, forse in collegamento con le bande di ribelli della montagna, si propose di tentare la liberazione del podestà Adamoli, che era stimato da tutti per la sua umanità. Il brigadiere dei vigili del fuoco Armando D’Antonio intervenne e riuscì ad evitare uno scontro sanguinoso. I giovani furono persuasi a rinunciare al tentativo e si portarono nei pressi del ponte della stazione, con l’intenzione di effettuare qui il tentativo di liberare il podestà Adamoli, se fosse stato trasferito altrove. La caserma Costantini, davanti alla quale i tedeschi sistemarono una siepe di cannoni e di mitragliatrici, venne brutalmente svaligiata. Adamoli scrive nel suo memoriale (“Nel turbinio di una tempesta. Dalle pagine del mio diario, 1943- 44”, Tipografia Cioschi, 1947) che il sangue, dinanzi a tanto scempio, ribolliva nelle vene, ma purtroppo non si poteva che guardare con le braccia incrociate, non avendo più le armi di cui si avrebbe avuto bisogno per difendersi, rintuzzare la violenza e tutelare il proprio onore. “Anche i carabinieri” scrive Adamoli, “non avvezzi a piegarsi, frementi nell’impotenza, erano brutalmente disarmati. Le stesse loro armi erano, poi, gettate, con violento disprezzo, dall’iroso straniero, su un autocarro, come preda di guerra. Il pubblico, trattenuto di là dal cordone, guardava e mormorava.”
Dopo qualche ora, Adamoli fu rilasciato e poté tornare nel suo ufficio podestarile, insieme con il funzionario del Comune Gino Di Francesco, che aveva voluto generosamente e volontariamente accompagnarlo quando era stato portato in caserma dai tedeschi. Il maggiore Bologna, invece, fu trattenuto e trattato piuttosto aspramente dagli ufficiali tedeschi, che disposero la requisizione di tutti gli autoveicoli civili e, ordinando di consegnarli in ottimo stato di marcia, presso la Caserma Costantini entro il giorno successivo, 26 settembre. Quelli guasti o mancanti di pneumatici, perciò non in grado di essere consegnati, dovevano essere denunciati con l’indicazione del luogo dove si trovavano. I trasgressori sarebbero stati deferiti al Tribunale di Guerra tedesco.
Adamoli si diede molto da fare per tentare di recuperare le salme insepolte delle vittime della fucilazione del mulino De Iacobis da parte dei tedeschi e studiò un insieme con Arduino Correale, che si era presentato nel suo ufficio podestarile, ma, scrive Adamoli: “per ragioni complesse, con nostro rammarico, non si poté condurre a compimento il pietoso atto, come più tardi fu fatto per altri”.
Umberto Adamoli, su suggerimento del Prefetto Elmo Bracali, pensò di offrirsi di andare a Bosco Martese e cercare di persuadere i partigiani a sciogliere le loro bande e a tornare nelle loro case per scongiurare il minacciato bombardamento di Teramo. Nel suo memoriale ricorda di essere stato combattuto sulla decisione da prendere: andando avrebbe rischiato non solo di non riuscire nell’impresa di convincere i partigiani, ma anche di essere catturato e ucciso, non andando si sarebbe sentito responsabile del bombardamento della città senza aver operato il tentativo. Decise di andare, a condizione che, al suo ritorno, venissero accettate le sue dimissioni da podestà. Il Prefetto oppose un rifiuto e pensò di affidare quella missione al capitano Bologna, che fece cercare, ma risulto che il capitano si era allontanato da Teramo insieme con la sua famiglia. La descrizione del momento che fa Umberto Adamoli nel suo memoriale è assai drammatica: “Nella città in subbuglio ed in panico, intanto, tra il rumore delle armi, si chiudevano negozi, uffici, istituti, case. La fuga verso la campagna, verso i luoghi più sicuri, con ogni mezzo, diveniva sempre più larga, viva, affannosa. Pareva come se si fuggisse, con le cose più care, da una città colpita dal morbo, da una città maledetta. Lassù, nella montagna, coperta di nebbia, il cannone continuava a tuonare.”
Seguì la sera in Prefettura un incontro del Prefetto Bracali e del podestà Adamoli con tre ufficiali tedeschi, un maggiore e due tenenti, i quali, servendosi come interprete di una signora romana, fecero tre richieste: 1) lo scioglimento delle bande partigiane che stavano in montagna entro 72 ore, con la minaccia di un bombardamento su Teramo di aerei che si trovavano già a Pescara se la richiesta non fosse stata esaudita; 2) la consegna di una lista di cento cittadini delle migliore famiglie sui quali esercitare la loro rappresaglia per l’uccisione del maggiore medico Hartmann avvenuta nel bosco; 3) l’affissione di un manifesto che avvertiva la popolazione che per ogni soldato tedesco ucciso nel territorio del comune sarebbero stati uccisi cento cittadini teramani.
Il podestà Adamoli fece presente agli ufficiali tedeschi che nessuna relazione c’era tra la città e le bande che operavano in montagna, composte in prevalenza da slavi e da soldati alleati fuggiti dai campi in cui si trovavano prigionieri o internati, di renitenti, di sbandati, di disertori. Le bande, forse, se non provocate, non avrebbero agito. Era folle la richiesta del sacrificio di cento cittadini teramani e la guerra, anche se aveva le sue esigenze severe, non poteva giustificare atti di scelleratezza. Preso da sgomento e da sdegno, Adamoli, com’egli stesso riferisce, arrivò ad offrire la sua propria fucilazione, come quella del podestà, cioè della massima autorità cittadina, in cambio di quelle cento vite umane incolpevoli. Furono i tedeschi a respingere la sua eroica proposta.
ELSO SIMONE SERPENTINI
(1/continua)