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Il 1944 arrivò a Teramo con una grossa nevicata e la popolazione fu angustiata dalla mancanza di energia elettrica, causa di tante difficoltà per le famiglie. Teramo capoluogo era invasa da sfollati e sbandati di ogni risma. Si susseguivano i fermi e gli arresti delle persone sospette sia da parte dei soldati tedeschi sia da parte dei militi del Battaglione “M.” Faceva molto freddo e c’era un grande nevone, che provocò molti danni, molti tetti crollarono, fra cui quello dell’Ospizio di Mendicità, provocando alcuni morti. Le linee telefoniche e telegrafiche furono interrotte e anche i pali di ferro delle linee elettriche caddero spezzati.
Il comandante tedesco della Piazza di Teramo il 3 gennaio alle 9 in punto si presentò al colonnello Umberto Adamoli, podestà di Teramo, e gli ingiunse di convocare per le 11 cinquecento operai davanti all’Istituto Magistrale “Giannina Milli”, dove era stato istallato un ospedale militare, per spalare le strade e soprattutto la strada che portava all’Aquila. Minacciò, se l’ordine non fosse stato eseguito, di mettere la città a ferro e fuoco. Adamoli scrive nel suo memoriale (“Nel turbinio di una tempesta. Dalle pagine del mio diario, 1943-44”, Tipografia Cioschi, 1947) che la richiesta gli venne fatta sgarbatamente, con l’orologio alla mano, con una rudezza tale da non offrire alcuna speranza di attenuazione. Date le opportune disposizioni, alle 10,39 davanti all’Istituto Magistrale si trovarono solo 150 operai e furono reclutati con urgenza come spalatori spazzini, impiegati e perfino carcerati. Alle 11 non erano 500 gli spalatori, ma in numero sufficiente a sgomberare le strade dalla neve.
Adamoli nel suo memoriale tiene a respingere le accuse di collaborazionismo con i tedeschi avanzate contro di lui, allora e in seguito, spiegando che spalare le strade dalla neve era comunque un beneficio per tutta la comunità e che salvare la città dai tedeschi, che non minacciavano mai invano, significava risparmiare dalla distruzione opere care, ricchezze che risalivano all’operosità dei secoli, la vita di donne e bambini, vecchi e malati, incapaci di fuggire nella neve alta. I più accesi nel rivolgergli le stolte accuse di collaborazionismo, aggiunge Adamoli, erano “coloro che avevano cercato, nei giorni turbinosi, con il tremito dei conigli, la via dei più sicuri rifugi”. Lo stesso Adamoli riferisce che i tedeschi ormai sembravano avere acquisito una maggiore conoscenza della città di Teramo e molte cose se le sbrigavano da sé, anche per una certa loro naturale diffidenza, ma si rendevano sempre più insopportabili con i loro sistemi e con i loro continui rastrellamenti. Effettuavano, scrive Adamoli una vera e propria caccia all’uomo: “caccia nelle strade, nelle case, negli uffici, nelle campagne”, una caccia agli uomini di ogni età, di ogni condizione, che, “caricati, come bestie, su autocarri, dai quali i rastrella tori si facevano seguire, erano trasportati, per lavoro, verso il fronte”.
Mercoledì 9 febbraio 1944 fu arrestato un nutrito gruppo di antifascisti teramani, che furono rimessi al giudizio di una commissione prefettizia appositamente nominata. Gli arresti furono deprecati dalla intera cittadinanza, perché si trattava di persone stimate nella città: intellettuali, commercianti e artigiani di alto livello professionale e morale. Adamoli si diede molto da fare per ottenere la loro scarcerazione, che riuscì ad ottenere, il 22 febbraio, intercedendo con il Prefetto come podestà, evitando così il loro certo trasferimento in qualche campo di concentramento del Nord. Con maggiore difficoltà, ma con ostinazione, riuscì ad ottenere anche la scarcerazione da parte della polizia tedesca del veterinario dott. Gatti, detenuto con l’accusa di collaborazione con gli anglo-americani.
Altrettanta ostinazione e coraggio Adamoli impiegò quando il Tribunale Provinciale Straordinario, istituito a Teramo, la cui sede era stata allocata nel Convitto Nazionale, nel febbraio 1944 giudicò l’avv. Nicola Nanni, podestà di Caramanico, accusato di favoreggiamento al nemico, Intercedendo come podestà di Teramo, Adamoli riuscì a convincere i giudici ad emettere al posto di una sicura condanna a morte una sentenza più favorevole, con la condanna a pochi anni di carcere.
Lunedì 5 giugno 1944, un giorno prima dello sbarco alleato in Normandia, le truppe americane del generale Clark giunsero a Roma, accolte entusiasticamente dalla popolazione. Quando la notizia giunse a Teramo, produsse una grande impressione. Tutti gli spettacoli cinematografici furono sospesi e i locali rimasero chiusi. La città visse un momento di grande confusione. Umberto Adamoli, che era ancora podestà, si assunse un grave carico di responsabilità nel calmare gli animi, nel tranquillizzare a popolazione nonostante i numerosi dubbi riguardo al da farsi, con lo sgomento che aumentava con l’aumentare delle violenze. I tedeschi, preoccupati soltanto di ritirarsi, si portavano appresso quanto più potevano del frutto delle loro razzie. Non davano quasi più molestie, ma le loro colonne risalivano le vie dalle quali erano discese, ma portandosi dietro un ricco bottino e quasi del tutto indisturbate, non avendo i partigiani mezzi sufficienti per intervenire e inseguirli. Il 9 giugno 1944, mentre l’VIII Corpo d’Armata degli alleati avanzavano oltre il fiume Sangro, il Prefetto Vincenzo Ippoliti lasciò Teramo dirigendosi verso il nord e la sua partenza lasciò l’ordine pubblico affidato solo alla più alta autorità rimasta in città il podestà Umberto Adamoli, sottoposto, in un momento assai difficile, ad una pressione psicologica, umana a morale non facilmente descrivile. Adamoli prova a darne conto nei suoi ricordi, riferendo di aver temuto, egli che tanto credeva di aver fatto, disinteressatamente, per il risanamento morale e materiale della città, di finire impiccato. E’ quanto gli fece temere una lettera minatoria anonima che gli pervenne nel suo ufficio dalla montagna. Gli si ingiungeva di lasciare subito il suo ufficio se voleva “vivere ancora qualche giorno” Qualche giorno dopo, però, continua Adamoli gli giunse un’altra lettera, questa firmata, scritta dal comandante partigiano Armando Ammazzalorso, che garbatamente lo ringraziava della sua opera., “riconosciuta così dagli stessi partigiani” e lo si invitava a restare al suo posto, “a protezione della popolazione”. Temendo che, con la partenza definitiva dei tedeschi, l’ordine pubblico potesse essere turbato, il podestà, come egli stesso riferisce, tramite Antonio Gattarossa, cercò di prendere contatto con gli stessi partigiani, per “concordare un comune piano d’azione”.
I tedeschi, da parte loro, lo guardavano “con occhio sempre più sospettosamente torvo”, non spiegandosi come mai lui si conservasse calmo mentre tutti i gerarchi fascisti mostravano “vivo panico”, e “sordamente minacciati, cercavano salvezza nella fuga verso settentrione”. In realtà, confessa Adamoli, era tutt’altro che calmo e tranquillo, tanto che aveva deciso di lasciare la sua casa andando ad abitare in quella di suo cognato, avv. Vincenzo Cameli, al largo Melatino. Però i tedeschi la trovarono, essendo stata loro indicata, in buona fede, da una donna vestita di nero, la circondarono, ne bloccarono le uscite e, picchiato invano all’uscio e constatato che dentro c’erano soltanto delle donne, ma non lui, si predisposero ad attendere il suo ritorno. Verso il mezzodì, quando tornò, i tedeschi erano stati chiamati altrove per qualche necessità e poi non ebbero più il tempo di tornare.
ELSO SIMONE SERPENTINI
(3/continua)