Vivevamo da bohémiens in quella soffitta di Via dei Marsi 67, a Roma, e la nostra finestra si affacciava sulla piazzetta antistante la Chiesa dell’Immacolata, dove non entrammo mai, ma dove vedevamo entrare periodicamente, dal nostro quarto piano, gente che affluiva per matrimoni e funerali. Io e Quirino Iannetti eravamo compagni di stanza, in casa dell’attempata signorina Colasanti, che affittava camere a studenti ed operai, nel popolare quartiere di San Lorenzo, a due passi dall’Università, dove frequentavamo il corso di filosofia.
Nella stanza, quando pioveva, scendeva l’acqua dal tetto, e noi cercavamo di contenerla ponendo bacinelle e stracci nei punti strategici, uno dei quali era proprio sopra il letto di Quirino. Studiavamo ciascuno al proprio tavolino, il mio sempre disordinato, il suo ordinatissimo, ciascuno in silenzio, ma eravamo moderni, avendo a disposizione una Olivetti 22 e un registratore Geloso, per registrare le nostre voci quando ripetevamo le lezioni e riascoltare le nostre voci per educarle, imparando le tecniche del parlare in pubblico descritte su alcuni libri americani che avevamo comprato a Porta Portese. Eravamo bohémiens, ma all’avanguardia. Facemmo gli stessi esami e frequentammo le stesse lezioni, di grandi maestri: Spirito, Sapegno, Ferrabino, Ghisalberti, Valeri, Visalberghi, Paratore, Traglia, Pincherle, Canestrari, Calogero, Ferrarotti. Con quest’ultimo facemmo la tesi in sociologia, io sui saggi tedeschi di Karl Mannheim, lui sul ruolo degli intellettuali nella società moderna.
Mangiavamo alla casa dello studente, frequentavamo gli stessi amici. Io facevo da guida quando studiavamo i testi di filosofia, come apripista di complicate argomentazioni astratte, più ostiche per lui, figlio di contadini e nato in campagna, perciò più portato ad una saggia concretezza. Lui faceva da guida quando studiavamo i testi di storia, perché già in possesso di una visione storiografica matura. Fummo compagni di stanza anche quando ci trasferimmo in Via dei Marsi 19, la stessa via, con la finestra che si affacciava su Piazza dei Campani, proprio nel cuore del quartiere di San Lorenzo. Ci laureammo a distanza di quattro giorni l’uno dall’altro, nel luglio 1966. Io ero già sposato. Nell’estate dell’anno prima avevamo preparato l’ultimo esame prima della discussione delle tesi, il più ostico, quello di latino orale, al quale si era ammessi solo superando il latino scritto, e lo avevamo superato solo in sei, io, lui e altri quattro studenti, tra cui Frida Boccara, che qualche anno dopo avrebbe cantato al Festival di Sanremo. Avevamo passato l’estate a studiare l’Eneide di Virgilio in latino nella stanza più in alto della sua casa di Frondarola, dove io mi recavo con il pulmann, e nella mia casa dove tuttora vivo. Il pomeriggio in cui una telefonata mi annunciò che ero diventato padre per la prima volta, facemmo giusto una pausa per festeggiare con un buon passito prima di rimetterci a studiare.
Tutta la nostra vita successiva la vivemmo in simbiosi, andammo insieme a Roma con la sua Cinquecento per affrontare e superare l’esame di abilitazione all’insegnamento. Ricordo la data precisa dell’avventuroso viaggio per Roma: domenica 22 ottobre 1967. La domenica precedente era morto in un incidente stradale Gigi Meroni e quella domenica si giocava il derby Juventus-Torino. Con l’autoradio seguimmo la radiocronaca della partita. Il nostro Torino, era anche lui tifoso granata, vinse 0-4 con una tripletta del mitico Nestor Combin. Buon viatico per il nostro esame. Tornammo a Roma con la mia Prinz per affrontare l’esame del concorso che ci vide per la prima volta separati sul piano dell’insegnamento, avviandomi io verso quello di storia e filosofia e lui verso quello d’italiano. Tante altre cose ci legarono, lui fu mio testimone di nozze (è morto proprio il giorno prima del 60° anniversario del mio matrimonio), poi padrino di battesimo di mio figlio Tiziano, mi ospitò a casa sua per il battesimo di mia figlia Samantha, che fu celebrato a Frondarola, nella chiesa antistante la sua abitazione. Poi abbiamo condiviso tante cose, divisi su poche cose e per poche cose, io di destra estrema, lui della destra liberale, io gentiliano, lui crociano, accomunati dall’amore del dialetto, della tradizione, dei nostri luoghi, Teramo per me, Frondarola per lui. È stato per anni un punto di riferimento culturale del suo paese di nascita e di tutta la vallata dell’Alto Vomano, custode prezioso della storia della sua comunità. È stato a lungo membro della giura di Vern’Aprile e poeta dialettale.
Abbiamo trascorso una vita insieme, anche quando in alcuni periodi ci vedemmo di meno, ma ogni volta, nel ritrovarci, era come se fossimo stati insieme il giorno prima. Più volte ci siamo visti nella piazza del suo paese, a casa sua, a casa mia, in occasione di eventi culturali. Discutevamo, ci scambiavamo opinioni, lui con il suo stile, la sua moderazione, con la quale cercava di frenare la mia esuberanza, con la sua riflessione con la quale cercava di mitigare la mia impulsività, la sua bonomia e la sua ironia, con la quale mitigava e spegneva le miei ire e i miei sdegni per i “mala tempora” che correvano verso di noi. Io condivisi i suoi lutti, suo padre prima, sua madre poi, lui condivise i miei, prima mio padre, poi mia madre e la perdita di due miei figli. Ricordo l’ultimo abbraccio, lui stava male nel fisico, consapevole del suo problema, ma anche del mio, che era non quello del corpo, ma quello dell’anima, per ferite di quelle che non possono rimarginarsi. Fu un abbraccio tremante, di due vecchi, consapevoli di percorrere l’ultimo miglio della propria vita. Fu un pianto muto. Ma in lui c’era una forza che in me non c’era: quella della fede e della credenza nell’immortalità dell’anima. In me non c’era non c’è. E’ per questo che non posso rivolgermi a lui, nemmeno retoricamente, come a volte si fa, per l’ultimo saluto, perché so che non sarebbe ricevuto. Io non credo che al termine della vita ci sia qualche cosa di diverso dal nulla. Quando il sipario scende, sul palcoscenico non ci sono più attori, non ci sono più recite né copioni. C’è solo il ricordo in chi resta di quanto è andato in scena. Io sono restato, finora, e, fino a quando resterò, conserverò il ricordo di un amico, di un amico che è stato più di un amico. Con il quale ho condiviso la mia vita. E lui ha condiviso la mia. Fino a quando è stato possibile. Mi mancherà. Sfoglierò spesso l’album dei ricordi
ELSO SIMONE SERPENTINI