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IncatoIeri sono stato in consiglio comunale. Ci sono tornato. Non come consigliere, come ci stetti dal 1970 al 1985. Altro livello, altro spessore. Nisi, Aiardi, Lettieri, Merlini, il primo e giovane Ponziani, Villani, Lettera, Pirocchi, e tanti altri, giganti… di valore e di pensiero. Ieri ho trovato pigmei, incapaci di salire sulle spalle dei giganti. Incapaci di tutto, a disagio con la grammatica e con la logica. Incapaci perfino di leggere ciò che avevano scritto, se l’avevano scritto loro. Io mi sono incatenato… e sono rimasto tutto il tempo fino al voto finale, osceno e vergognoso, con il quale è stato deciso che in alcune baracche della Cona studieranno i liceali e i convittori. La favola dei tre porcellini al contrario. Lasceranno la casa di pietra e mattoni e studieranno nella casa di legno, quella che il lupo cattivo si portava via con un soffio. Per quanto tempo? Non si sa. I tempi della politica sono eterni e tutto ciò che è provvisorio diventa definitivo. Lo sanno anche loro che il Liceo rischia di diventare come la Casa dello Sport, domicilio notturno di reietti e senza tetto, preda dei vandali. Se non inizieranno i lavori - ma prima bisognerà capire quali - le aule dove insegnarono Provenzal e Passino, Faranda e la Crico, Serafini e Pirocchi, dove insegnai anche io, dopo averci studiato, diventeranno tane di lupi solitari o in branco, dormienti su materassi di carta e coperti di rugiada. Ieri sono tornato in consiglio comunale e l’indignazione mi ha preso. L’uomo della montagna, il moderno Loretello che presiede un ente inutile senza essere stato votato dal popolo e amministra in nome del popolo, ha dedicato tutte le sue energie non a far sì che il sequestro fosse annullato, o superato da lavori presto progettati ed eseguiti. No. Ha dedicato tutto se stesso ad erigere catapecchie alla Cona, lasciando dietro la sua decisione una quantità di interrogativi senza risposta e senza chiarezza sui motivi dell’agire. Ciò che mi ha sorpreso ieri è stata l’illegalità. Non la mia, che non è stata punita per un incatenamento che una volta avrebbe portato la Digos ad intervenire, ma quella di un presidente della provincia che ha fatto da regia a tutto il dibattito. E’ stato il regista di ogni momento della commedia andata in scena, muovendosi tra i banchi dei consiglieri, confabulando con questo e con quello, forse dando consigli se non ordini. Per pudore, oltre che per legge, avrebbe dovuto tenersi alla larga e invece era lì, che dirigeva gli attori, che li controllava, forse li sanzionava o li applaudiva per la loro recita. E c’era chi glielo lasciava fare. Nulla ha avuto da ridire il presidente del consiglio, nulla ha avuto da ridire un sindaco che giustamente è stato definito “commissariato”, nulla hanno detto i consiglieri. La soluzione adottata, una deroga alle norme per piantare palafitte in difformità alle regole, è delittuosa, non perché si esilia il popolo del Delfico in periferia, ma perché lo si scaccia dal suo luogo deputato e dalla sua casa per una presunta pericolosità della struttura, non certificata pienamente e senza aver nemmeno provato a ridurla con pronti interventi, pur avendo somme a disposizione. Inutile girarci intorno: il sospetto è che gestire grandi somme di denaro in situazioni emergenziali consenta deroghe di ogni tipo, anche di tipo amministrativo e legale, saltando obblighi e riserve, convenzioni e stile democratico. La sbrigatività podestarile delle somme di denaro gestite in emergenza potrebbe essere al tempo stesso il fine e il mezzo, e insieme la causa, e il primo compito di un amministratore è rendere pienamente conto delle proprie scelte, spiegarne le ragioni e fare chiarezza su obiettivi e mezzi. Per il Delfico non c’è stata chiarezza, fin da subito, nessuno ha spiegato perché si è rimasti inerti per anni, perché il sequestro è stato considerato ineludibile e forse atteso e calcolato, visto che si è stati così pronti non ad eliminare le ragioni del sequestro, ma a ricorrere ad una soluzione che sembrava individuata ancora prima del sequestro e perseguita con ostinazione degna di miglior causa. Mi ha anche sorpreso - e mi sorprendo della sorpresa, perché avrei dovuto aspettarmelo - constatare de visu i guasti della riforma Del Rio-Renzi. Non capisco come si possa essere al tempo stesso consigliere comunale e provinciale, consigliere comunale e vice presidente della provincia, presidente della provincia eletto da pochi intimi, non capisco come non si rilevi la incompatibilità dei ruoli, in due diversi consessi assembleari e in due enti pubblici i cui compiti potrebbero porsi in contraddittorio e in contrasto. Qualcuno ha detto che lo spettacolo ha prodotto in me rabbia e livore. No. La mia non è rabbia, ma indignazione. La rabbia è un vizio, l’indignazione è una virtù. Anzi, credo che, se proprio si vuole chiamare in causa una virtù ancora più elevata, si debba chiamare la mia virtù con il suo nome: ira. Ricordo di aver svolto un paio di anni fa un elogio dell’ira, visibile e ascoltabile da qualche parte su You Tube. Quando al termine dell’osceno spettacolo a cui ho assistito ieri ho sciolto le mie catene, in me c’era l’ira, la più alta delle virtù anche per l’accademico Platone e per il Gesù che scacciò i mercanti dal tempio. Ecco: l’immagine che la mia mente evocava ieri, lasciando il Parco della Scienza, dove tutto si fa fuorché la Scienza, era quella della cacciata dei mercanti dal tempio. Ma io non avevo l’autorevolezza per farla.
Elso Simone Serpentini