Era un mercoledì, il 13 ottobre del 1943, i rumori della guerra erano vicini, ma non abbastanza da riuscire a coprire le voci del coro della chiesa di Santa Maria La Nova, a Cellino Attanasio, che stava provando le canzoni per il Natale ormai quasi alle porte. Comincia così, in quella serata sospesa tra il tempo della paura e il tempo della speranza, l’ultima puntata della nostra inchiesta su “Arvì”, la canzone contesa, il meraviglioso e struggente canto popolare che Enrico Melozzi non può suonare alla Notte dei Serpenti, perché c’è una questione aperta sulla paternità della musica.
Ufficialmente, per i registri dalla Siae, a mettere in musica le parole di quella canzone è stato Ennio Vetuschi, indimenticato fondatore e direttore della Corale Giuseppe Verdi, ma non sono poche le opinioni contrarie, come abbiamo raccontato nelle prime puntate della nostra inchiesta ( la PRIMA e la SECONDA).
Solo su una cosa tutti, ma proprio tutti concordano: le parole sono del medico condotto e poeta Antonio Misantone.
Ed è proprio lui, Antonio Misantone, che, alle 20 del 13 ottobre del ’43, durante le prove del coro, entra in quella chiesa.
Il perché ce lo racconta Vincenzo Cori dell’Associazione culturale “Eco tra i Torrioni” di Cellino Attanasio:
«Era andato a trovare il direttore del coro, Luigi Dati, personaggio dai variegati interessi, che era suo cugino di primo grado e che fin da ragazzo s’era avvicinato alla musica ed alla poesia frequentando gli ambienti letterari del paese, tanto da diventare musicista e compositore, polistrumentista, partecipando a numerose competizioni di canzoni e poesia dialettale abruzzese, scrivendo anche le basi musicali di alcune delle più note canzoni del
cugino…».
Eccola, la prima traccia importante, che scoprirete tra un po’ essere una vera e propria rivelazione, che stravolge e riscrive la storia di questa canzone: Dati aveva scritto le “basi” di alcune delle canzoni del cugino Misantone.
Nessuna inchiesta, però, sarebbe tale senza un colpo di scena.
Nessun “giallo” avrebbe dignità di mistero senza la testimonianza che cambia tutto.
E allora, eccola:
«Io c’ero, quella sera… e mi ricordo quando entrò Misantone, per parlare con il cugino Luigi Dati… stavamo facendo le prove, cantavamo un “Tantum ergo” di Zimarino, quando Misantone ci interruppe e disse ““Ciao cuggì, ti so purtate n’affare! Ci si po’ mette ‘mbò di musiche qua?”…»
Sono parole di Pasquale Di Menco, 94 anni, vero e proprio “monumento” del teatro dialettale e della canzone popolare, che di quella sera, benché fosse appena dodicenne, ricorda tutto:
«Dati smise di suonare l’armoniumn, prese il mandolino… e leggendo le parole cominciò a suonare… “Te ne jste luntane luntane…”…poi alla fine della prima strofa chiese a Misantone “… che dici cuggì?” e la risposta fu immediata: “…porca miseria, mastro Gì, ma tu sì nù cantore, vabbone, sìguite sìguite…”, fu a quel punto che Dati si rivolse a noi e ci disse “lì giuvano’, andate, le prove le facciamo domani».
Restarono soli, quella sera, e in quella chiesa, sul mandolino di Luigi “Gino” Dati prese forma lo spartito di Arvì, che in realtà sembra che in prima stesura si intitolasse "Arvì Carmè" e fu con ogni probabilità un’opera a quattro mani.
Una notizia, quella che Cori rivela con l’attenzione del cultore e Di Menco conferma con la memoria del testimone, che cambia tutto, sia perché sposta la nascita della canzone ad un decennio prima rispetto alla registrazione, sia perché ne attribuisce la paternità a Gino Dati.
E allora Vetuschi, che nel ’43 aveva 16 anni?
«Qualche anno fa sono stato contattato dal figlio di Dati, che voleva denunciare Vetuschi proprio per essersi impossessato della musica della canzone - spiega Di Menco - ma le cose non stanno proprio così».
E come stanno?
«Io sono di Cellino, ma quando venni a vivere a Teramo, perché avevo ritrovato la mia prima fiamma, ebbi modo di ritrovare anche una mia vecchia collega di insegnamento, Lea Misantone, che era figlia di Misantone con la quale finimmo proprio a parlare di “Arvì” e fui io a chiedere a Lea come mai quella canzone, che avevo visto nascere sul mandolino di Gino Dati, fosse poi finita a Vetuschi… e lei mi disse che il padre aveva voluto incontrare Vetuschi e gli aveva dato la canzone, perché sì, è vero, Dati aveva fatto la melodia, ma non era un diplomato in composizione, quindi chiese a Vetuschi di fare l’accompagnamento e di portarla a quattro voci...».
La versione a quattro voci serviva per partecipare ad un concorso all'Aquila, nel 1953, nel quale "Arvì" si piazzò al secondo posto.
Quindi Lea non nutriva rancori per Vetuschi?
«Mi disse che aveva più volte detto al fratello Totò di essere dispiaciuta, per il fatto che la famiglia Misantone avesse rinunciato ai diritti e adesso ne godessero altri...»
Le parole di Di Menco scolpiscono una verità, che essendo quella di un testimone diretto non può non essere considerata attendibile e credibile, anche perché costruisce un percorso storico e “musicale” che, in tutte le sue fasi, è supportato da prove di vita vissuta. E’ una prova, importante,
fondamentale, che confuta anche quelle documentali che sostengono le altre tesi.
Dunque, il giallo è risolto?
Tecnicamente, sì.
Il mistero non c’è più.
C'è stata una svolta, una rivelazione.
Quando abbiamo cominciato questa inchiesta, cercavamo un nome e le prove.
Il caso è chiuso.