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Non è bastata la mobilitazione degli ultimi giorni, né il coinvolgimento delle principali sigle sindacali: il referendum abrogativo su lavoro e cittadinanza si è fermato a un’affluenza poco sopra il 30%, ben lontano dalla soglia necessaria del 50%+1 per rendere valida la consultazione.

I cinque quesiti proposti — quattro in materia di diritti del lavoro e uno sull’accesso alla cittadinanza — non hanno attirato l’interesse degli elettori. Particolarmente debole il risultato del quesito sulla cittadinanza, che ha raccolto il minor numero di “Sì”.

Il mancato raggiungimento del quorum rappresenta un duro colpo per i promotori, in primis la Cgil. Il segretario Maurizio Landini ha ammesso la sconfitta: “È chiaro che non siamo riusciti a parlare al Paese. Ma dimissioni? Non ci penso proprio. Continueremo la battaglia nei luoghi di lavoro e nelle piazze”.

Di tutt’altro tenore il commento del centrodestra. Il presidente del Senato Ignazio La Russa non ha usato mezzi termini: “Il campo largo è morto. La campagna di odio della sinistra ha schifato gli elettori. Questo voto — o meglio, questa assenza di voto — parla chiaro”.

Nel Partito Democratico si apre ora una fase di riflessione. Alcuni esponenti chiedono un cambio di strategia e di linguaggio, altri puntano il dito contro la scarsa chiarezza dei quesiti e la confusione comunicativa che ha caratterizzato la campagna.

Resta il dato politico: la partecipazione popolare, ancora una volta, si mostra debole di fronte a strumenti di democrazia diretta. E mentre il fronte progressista lecca le ferite, la destra festeggia un risultato che, seppur per via dell’astensione, assume un forte significato simbolico.