Morì il 29 di aprile di 50 anni fa. Aveva 18 anni come me. Capelli lunghi al vento come me. Giocava al calcio come me. Era un iscritto al Fronte della Gioventù come me. Diventò un obiettivo da colpire come me. Venne perseguitato in una lunga persecuzione che prepara il delitto con la complice indifferenza di docenti e studenti perché sventolava il tricolore. Pagò con un “processo politico” l’aver criticato gli assassini delle brigate rosse. Venne massacrato con ferocia sotto casa 10 contro 1 nel centro di Milano. Colpito con chiavi inglesi Hazet 36 anche quando cadde a terra. Gli aprirono il cranio. Gli sfregiarono il viso. Gli spaccarono i denti. Erano le 13,30 e nessuno intervenne nel cuore di Milano. Solo una donna urlò più volte dal balcone ma loro colpivano come belve i vigliacchi e colpivano con ferocia i bastardi, e colpivano ancora. Il “fascista” doveva morire. Gli assassini appartenevano ad un gruppetto di fanatici militanti di “Avanguardia operaia” ma non c’era neppure un operaio tra loro. Sergio muore dopo 47 giorni di agonia il 29 aprile di 50 anni fa. “Di storie come quella che sto per raccontare ce ne sono state molte, troppe, quando eravamo ragazzi”. Sergio Ramelli è solo uno dei 200 e più giovani uccisi dal clima di linciaggio politico figlio della zona grigia dell’esasperazione politica e della violenza diffusa della sinistra extra parlamentare degli anni’70. Come i fratelli Mattei, Pedenovi, Ciavatta, Bigonzetti, Falvella, Giralucci, Mazzola, nomi dimenticati, giovani morti per la libertà del Paese che amavano. Il nostro Paese. L’Italia. Ma l’infamia del caso Ramelli non finisce nella pozza di sangue. Nel corso dell’assemblea consiliare al Comune che fece seguito all’aggressione la disumanità andò oltre ogni limite quandonel pubblico presente ci fu chi applaudì alla notiziae tentò di aggredire i rappresentanti del MSI Ignazio La Russa e Tomaso Staiti di Cuddia che aveva in quel momento la parola. Una vergogna alla quale se ne aggiunse un’altra: gli applausi anche di diversi consiglieri comunali di sinistra. Applausi mentre una giovane vita si stava consumando in un letto d’ ospedale. “Bisognerebbe scrivere l’antologia di Spoon River di quegli anni balordi e bastardi. Sono tanti, i ragazzi che non ci sono più. Potevano avere una divisa addosso, potevano essere di destra, potevano essere di sinistra. Tutti, tutti dormono sulla collina”.
Solo dopo 10 anni, grazie al giudice Guido Salvini, vengono individuati i responsabili rompendo la “zona di consenso” di cui godevano gli assassini che urlavano “Uccidere un fascista non è reato” nei palazzi di giustizia. Sono 8 i “coraggiosi rivoluzionari” sono 8 gli assassini di avanguardia operaio. Il 16 marzo 1987 iniziò il processo per gli accusati del massacro di Ramelli: Marco Costa, Giuseppe Ferrari Bravo, Claudio Colosio, Antonio Belpiede, Brunella Colombelli, Franco Castelli, Claudio Scazza e Luigi Montinari. Le accuse comprendevano omicidio volontario, tentato omicidio, sequestro di persona, associazione sovversiva,Ammettono che nessuno di loro lo conosceva. La condanna definitiva nel 1990 è di omicidio volontario ma le pene sono irrisorie tra i 6 e i 10 anni per loro. Solo 4 andranno in carcere mentre gli altri hanno beneficiato di condoni e regimi limitativi o sostitutivi. Solo dopo 12 anni inviarono (non tutti) una lettera di scuse alla madre Anita. Dodici anni e poche parole: “Non avevamo nulla di personale contro suo figlio, non lo avevamo mai conosciuto né visto”. Ma, come troppo spesso accadeva in quel periodo, il fatto di pensare in modo diverso automaticamente diventava causa di violenza gratuita e ingiustificabile. Proponendo la miserabileofferta di 200 milioni di lire per avere il “perdono” che la madre rifiutò con estrema dignità. Gli assassini di Ramelli non hanno mai pagato veramente il loro debito e hanno potuto godere del diritto all’oblio. Per 50 anni è sembrato che non fosse successo nulla, è sembrato che Ramelli non fosse mai stato ucciso. Gli assassini scrissero che “non volevano ucciderlo” ma l’avevano colpito forte e colpito a morte con spranghe di acciaio. L’epilogo sa di ingiustizia di cui però nessuno parla. E chi cerca di dar voce a vittime volutamente silenziate, viene silenziato a sua volta. Un accanimento paradossale contro unragazzo senza colpe, ma che, alla fine, lo ha reso eterno.
Leo Nodari