La batosta subìta dagli azzurri a Oslo la dice lunga sullo stato di salute del calcio italiano. Se la massima serie ancora provoca appeal lo si deve quasi esclusivamente ai calciatori stranieri. Basta leggere i tabellini dei marcatori, degli assist, dei rendimenti. Solo ieri il Castelnuovo calcio, nella finalissima di Fiumicino, valida per la promozione in serie D, è scesa in campo, vincendo, contro il Montespaccato con una rosa quasi interamente composta da calciatori stranieri. Quindi, anche in Eccellenza o Promozione (quinta e sesta categoria), cioè nel pieno del calcio dilettantistico, molte società preferiscono puntare gli stranieri, perché costano meno, hanno più tecnica, corrono di più e hanno più mordente. A cosa si deve l’evidente processo di involuzione del calcio nazionale?
Anni fa, mentre osservavo un allenamento di un settore giovanile (under 14), mi accorsi che dei 90 minuti previsti per il training, più della metà del tempo volava via chiacchiere circa fantasmagorici moduli e schemi tattici. Per il resto, che rappresenta il cuore delle capacità calcistiche, cioè la forza atletica e la tecnica, nulla o quasi nulla.
A calcio si gioca correndo, ma avendo le abilità tecniche necessarie a fermare e ad orientare la palla. Magari, con entrambi i piedi (non è chiedere troppo). La tattica, in alcune categorie, non è soltanto dannosa, ma anche inutile, dinanzi a calciatori che corrono poco e fanno fatica pure a fermare la pelota.
Insegnare la tattica, ad un poco più che bambino, è un atto di onanismo mentale che alimenta le fantasie e le frustrazioni del solo istruttore o allenatore.
Quando sento parlare di tattica nei campionati dilettantistici mi viene da ridere. Campionati nei quali militano calciatori che fanno fatica a stoppare un pallone e mostrano intensità atletiche da livello amatoriale.
La tattica nei settori giovanili deve essere censurata. I ragazzi devono andare al campo per divertirsi, per correre, per sperimentare e perfezionare le proprie abilità tecniche, per dare sfogo alla fantasia. Un calciatore che sia in grado, per forza o tecnica, di saltare l’avversario è oramai merce rara.
Un istruttore o un allenatore per erogare livelli di competenza atletici e tecnici deve avere una preparazione professionale adeguata, che non sia solo il frutto della propria esperienza calcistica, che il più delle volte si è consumata ai margini del professionismo o nel dilettantismo puro.
Per costruire un atleta o per insegnare la tecnica calcistica non basta aver superato un corso: occorrono inclinazione, conoscenza del tema, profonda preparazione professionale.
Altrimenti, alla sconfitta meritata di Oslo (ho detto Oslo e non Wembley o Maracanà) ne seguiranno tante altre. Quando accade che in serie D o in Eccellenza classi anagrafiche 2007 (18 anni) e 2008 (17 anni) siano considerate acerbe per giocare nei dilettanti, è la prova provata che i settori giovanili devono, velocemente, invertire la rotta, al pari degli allenatori delle prime squadre.
Gli atleti, per la letteratura scientifica, esprimono la loro massima capacità di forza, apprendimento ed elasticità motoria nel periodo intercorrente tra i 15 e 20 anni. Poi, soprattutto negli sport di squadra, subentrano le prime usure, gli infortuni, seppure l’atleta perfeziona alcuni meccanismi cognitivi.
Se un ragazzo non gioca quando il suo fisico esprime la massima potenza, quando avrà spazio?
Ultimo capitolo è la norma assurda degli under. A mio modesto parere, se un calciatore è forte gioca pure a 15 anni, età minima autorizzabile per disputare campionati seniores.
E’ sempre stato così. Chi non è forte gioca prima da under per poi riscendere, negli anni seguenti, negli inferi del calcio quasi amatoriale. Togliere la regola degli under significherebbe alzare il tasso qualitativo del calcio dilettantistico, facendo emergere chi veramente merita o aspira a fare del pallone una professione.
GIGIRRIVA