Che Dubai sogni di essere considerato un paradiso, lo sai prima ancora di venirci. Lo sai perché hai letto di questa città costruita in un angolo del nulla, in uno spigolo di deserto, in una distesa di sabbia della quale gli emiri non sapevano che fare, prima di infilarci una trivella. La guida, che si chiama Mohammad come tantissimi altri uomini e che, come tantissimi altri uomini, non è emiratino ma è venuto qui a cercare lavoro, non si perde in metafore, e ti spiega quasi con disarmante candore che qui il tempo non si calcola in prima e dopo Cristo, ma in prima e dopo il petrolio.
Perché prima qui davvero era tutta sabbia, con qualche tribù di pescatori che cercavano di trovare in mare una speranza di futuro, strappando perle alle ostriche e commerciando con i beduini, che i deserti li attraversavano con le loro carovane di cammelli.
Stranieri, qui, non se ne vedevano mai, a parte un veneziano nel 1500 e gli inglesi, che con la scusa di assicurare protezione all’emiro, ne fecero un loro protettorato e un porto utile per i commerci con la Persia.
Era, però, una porzione invisibile del Mondo, una punta di terra utile solo a strozzare il Golfo Persico, in quello stretto di Hormuz che è la porta di ingresso ad un ritaglio di Pianeta che, invece, ha sempre fatto cronaca. Volare da Roma a Dubai significa, infatti, ripercorrere gli ultimi quarant’anni (e oltre), di Medio Oriente. Il volo non è dritto, perché se lo fosse passerebbe proprio sulla striscia di Gaza, ma la evita, sfiorando il Canale di Suez, prima di attraversare l’Arabia, seguendo i confini dell’Iraq e del Kuwait, per poi arrivare al mare e tagliarlo in due, planando verso Dubai, con il gigantesco Iran a sinistra. Eppure, mi perdonerà la guida, anche se il petrolio, scoperto nel 1966, ha segnato una svolta storica, non è quella la vera ricchezza di Dubai. E non è solo grazie al petrolio, che la città è passata dal 55mila abitanti del 1966 ai 3,6 milioni di oggi.
È grazie ai soldi.
Perché Dubai è una grandissima fabbrica di soldi. Nessuna imposta sul reddito delle persone, nessuna imposta sul reddito delle aziende, se non il 9% ma per utili superiori ai 95mila euro annui, significa che un Paradiso Dubai lo è davvero.
Fiscale.
Una città nata per creare ricchezza.
Te lo dicono subito, appena scendi dall’aereo e leggi le otto regole base della vita a Dubai. La terza, soprattutto: “Siamo la capitale degli affari. Il governo di Dubai mira a migliorare la vita della sua gente rafforzando la sua economia. Dubai non investe né si occupa di politica e non fa affidamento sulla politica per garantire la sua competitività. Tendiamo una mano amicale a tutti coloro che hanno buone intenzioni verso Dubai e gli Emirati Arabi Uniti. Dubai è un hub globale politicamente neutrale e favorevole alle imprese che si concentra sulla creazione di opportunità economiche”.
Più chiaro di così.
Tutto merito dell’emiro Mohammed bin Rashid Al Maktum, che prima di tutti, nel Golfo Persico, ha intuito che il petrolio non sarebbe stato eterno, ma la sabbia sì. Ecco perché ha pensato e costruito una capitale che potesse attrarre sempre più ricchissimi, perché i ricchissimi attirano i ricchi, che vogliono case belle e hotel di lusso, ristoranti stellati e macchine da sogno (basti vedere Maserati e Ferrari in pronta consegna nei concessionari). Ma i ricchi sono utili anche perché portano lavoro, creando una borghesia benestante di famiglie che vogliono case, macchine e centri commerciali (ce ne sono 52 in città), e scuole, e strade larghe, costruite da altra gente venuta a lavorare (a quali condizioni, ve lo racconto nei prossimi giorni).
E tutto questo, le case, gli alberghi, i ristoranti, i centri commerciali, è stato costruito proprio sulla sabbia.
E indovinate chi è il proprietario di tutta la sabbia…
E ne va talmente fiero, da aver voluto che una cornice (la più grande del Mondo, manco a dirlo) esaltasse la sua opera d’arte.
Una cornice d’oro, ovviamente.
ADAMO