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TrumpLa libertà di parola e l’abbaglio dei “democratici”
Quella per l’affermazione del diritto alla conoscenza come diritto umano fondamentale è stata l’ultima battaglia condotta dal teramano Marco Pannella, il quale con coerenza e lungimiranza ha costantemente denunciato la censura di regime, come amava definirla.
La proposta di riconoscimento e codificazione di tale nuovo e autonomo diritto fondamentale nasce anche dall’esigenza di tutelare i cittadini contro il pericolo che i Governi possano limitare o bloccare l’accesso ad internet, divenuto oggi il veicolo principale di diffusione delle notizie e quindi una fonte importante per l’informazione.
Molti hanno denunciato il bavaglio da parte dei governi, ma nessuno poteva immaginare che a esser oggetto di censura fosse lo stesso governo della nazione più potente del mondo, nella persona del suo presidente, il miliardario Donald Trump.
In un precedente articolo (leggi qui: https://certastampa.it/controcorrente/42330-controcorrente-trump-vs-trump.html) ho già scritto di come, a voler ignorare le pur evidenti prove dei brogli elettorali, l’intero processo elettorale sia stato falsato e pesantemente condizionato da una campagna mediatica che ha visto realizzarsi un accordo tra i principali mass media e i più importanti social network, con un ricorso massiccio alla censura e alla programmata opera di disinformazione.
Sono state quindi diffuse notizie fasulle, come quella relativa a sondaggi che calcolavano un vantaggio (irraggiungibile) in favore del candidato Biden di ben 15 punti, con il chiaro intento di scoraggiare gli elettori repubblicani; o quella di un’accusa ancora oggi inesistente a carico della figlia di Trump e del giuridicamente impossibile provvedimento di grazia (preventiva?) che costui avrebbe presto firmato, non solo in favore di Ivanka, ma persino di se stesso. D'altro canto la stampa “mainstream” è riuscita a tener nascosta la vera notizia, rappresentata dalle indagini a carico di Hunter Biden, figlio dell’attuale presidente USA, accusato del grave delitto di riciclaggio di milioni di dollari.
La decisione assunta da Twitter e Facebook di bloccare i profili del presidente e di migliaia dei suoi sostenitori politici non solo non stupisce, ma rappresenta lo sviluppo prevedibile di un processo di censura e propaganda ben programmato.
Una censura che, tuttavia, non ha colpito solo il capo del governo degli U.S.A., ma milioni di cittadini che, per ricevere notizie e informazioni, sono migrati in massa su social alternativi quali Rumble e Parler.
Ma Trump e i “Trumpists”, come un nemico in fuga a cui non si deve dar tregua, sono stati raggiunti dalla censura anche sulla piattaforma Parler, social network alternativo a Twitter, la cui connessione ad internet è stata disabilitata, così privando milioni di cittadini del dibattito politico trasformato in monologo di regime.
Il boicottaggio di Parler ha provocato quindi un secondo esodo di utenti verso Telegram, ultimo baluardo non solo dei seguaci di Trump, ma dell’ormai negato, prima ancora d’esser codificato, diritto alla conoscenza.
L’assoluta assenza di contraddittorio, realizzata imponendo il silenzio forzato al Presidente degli USA, ha inoltre favorito l’affermazione di notizie palesemente false, la cui diffusione appare funzionale all’opera di criminalizzazione di uno scomodo e irriducibile avversario politico.
La stampa italiana, con uno sforzo di fantasia unico al mondo, è tornata a diffondere la solita e ricorrente “notizia” dell’imminente divorzio di Melania da Donald, mentre la TV pubblica, nel corso del programma Uno Mattina, ha consentito ad uno sguaiato Alan Friedman di definire la first lady la “escort di Trump”, così passando dalla disinformazione alla diffamazione.
Persino divertente la “notizia” secondo cui il famoso pulsante rosso collocato sulla scrivania presidenziale dello studio ovale, ora rimosso da Biden, sarebbe stato usato da Donald per ordinare la Coca Cola, bevanda di cui sarebbe particolarmente ghiotto, e non piuttosto per eventuali chiamate d’emergenza.
Non si è salvato dal pubblico ludibrio mediatico neppure lo stimato e autorevole avvocato Rudy Giuliani, “colpevole” d’aver difeso strenuamente l’indifendibile Donald e per tale ragione deriso tramite la diffusione della notizia, radicalmente falsa, secondo cui il cliente plurimiliardario, dopo averlo lodato in pubblico per l’opera professionale coraggiosamente prestata, si sarebbe rifiutato di pagare la parcella, concordata nella misura di “soli” 20.000 dollari al giorno.
In realtà Giuliani ha ritenuto di non poter assumere la difesa dell’amico e compagno di partito nel grottesco processo d’impeachment per ragioni d’opportunità, avendo lui stesso partecipato al disastroso comizio del 6 gennaio a Washington.
Inoltre a carico dell’ex sindaco di New York sarebbe stato aperto un procedimento disciplinare con richiesta di cancellazione dall’albo degli avvocati, proprio per aver partecipato insieme al cliente all’infuocato comizio.
Non è chiaro, in ogni caso, come un procedimento d’impeachment possa esser instaurato e condotto a termine non solo dopo la cessazione dall’incarico dell’accusato, ma persino senza l’individuazione di una chiara figura di reato presupposto.
Chi scrive non intende certo assumere la difesa d’ufficio dell’incontenibile personaggio, quanto piuttosto far emergere l’impossibilità d’ogni difesa per chi non ha più diritto alla parola e accesso ai mezzi d’informazione, al punto di non poter esporre la sua versione dei fatti neppure sui social, per contestare e contraddire un’accusa che, a causa di una censura e propaganda sinora sconosciute al mondo occidentale, rischia di trasformarsi in una condanna inappellabile già pronunciata da Big Tech.
Sembra dunque che il processo di criminalizzazione dello scomodo e pericoloso palazzinaro newyorkese, iniziato subito dopo aver sconfitto la Clinton quando fu vittima di una grossolana simulazione di reato meglio nota come “Russiagate”, ovvero la falsa accusa da cui ebbe origine il primo tentativo d’impeachment, sia ormai giunto nella fase finale con lo scopo sempre più evidente di distruggere un temibile avversario politico che, nonostante i pur rilevanti errori e la gigantesca campagna denigratoria, ha visto il suo consenso crescere anziché diminuire.
E così la stampa “mainstream”, se da una parte ha censurato la notizia dell’avvenuta desecretazione da parte di Trump degli atti d’indagine relativi all’ “Obamagate”, dall’altro ha dato enorme spazio alle dichiarazioni delle implacabili accusatrici seriali Hillary Clinton e Nancy Pelosi che, contro ogni evidenza, sono tornate di nuovo ad accusare il presidente ormai uscente d’ancor più improbabili intelligenze con l’odiato e storico nemico russo, al punto d’affermare che dietro l’attacco a Capitol Hill potesse esserci addirittura la regia di Putin che, secondo tale fantasiosa visione complottista, avrebbe agito d’intesa con il “traditore” Trump.
Poco importa se, nonostante il silenzio dei principali mezzi di comunicazione, sia stato in parte già accertato grazie a filmati e prove incontrovertibili che dietro la sommossa hanno agito noti agenti provocatori, esponenti dell’organizzazione denominata “antifà”, come quel tale John Sullivan camuffato da “trumpist” a cui carico, secondo l’FBI e i media “mainstream”, non vi sarebbero state evidenze della sua partecipazione agli scontri, ma poi arrestato obtorto collo dall’F.B.I., solo dopo la pubblicazione sul quotidiano “on line” Gateway Pundit di un compromettente filmato.
Dunque un contesto politico a dir poco tenebroso e inquietante, con una macchina della propaganda scatenata e capace di costruire “verità” alternative che forse non rinviene precedenti nella storia dei paesi occidentali, se si esclude la parentesi delle dittature nazista e fascista.
È così accaduto che per presidiare la cerimonia d’inaugurazione del nuovo presidente, la cui elezione è stata generosamente sponsorizzata dalla Santa Alleanza tra Big Money, Big Tech e Big Pharma, sia stato impiegato un esercito di ben 25.000 uomini.
Rimossa inoltre dalle più importanti testate giornalistiche la notizia dell’impeachment, presentato il 21 gennaio 2021 contro Joe Biden dalla battagliera parlamentare georgiana Marjorie Taylor Greene.
Ignorata la non meno rilevante notizia di quanto comunicato in una lettera inviata il 7 gennaio 2021 al Congresso degli Stati Uniti da John Ratcliffe, coordinatore di tutte le agenzie di “intelligence”, che ha denunciato pressioni da parte dei dirigenti della C.I.A. sugli analisti per “alleggerire” le valutazioni sulle interferenze svolte dal governo cinese nelle elezioni presidenziali U.S.A..
Un’azione di censura che completa il quadro della costruzione e narrazione di quella che sembra esser una verità di regime, realizzata tramite il controllo pressoché totale dell’informazione.
Questa non è solo una gravissima crisi della democrazia americana, ma piuttosto l’inizio di un regime che per affermarsi deve negare i tradizionali valori di libertà e democrazia posti a fondamento della cultura occidentale.
Vincenzo di Nanna